Via Dogana 3: È ora di cambiare
Libreria delle donne di Milano
Issue December 2023
Marea
Giorgia Basch
Nei giorni scorsi, durante le manifestazioni che si sono tenute nelle piazze d’Italia contro la violenza sulle donne, una frase è spiccata su tutte: “Siamo marea”. Marea sono state le oltre 500.000 persone che hanno partecipato a Roma il 25 novembre, e migliaia di altre in diversi luoghi pubblici del Paese, come qui a Milano, dove si sono riunite 30.000 persone. Marea sono le tantissime voci che si sono sollevate con rabbia nelle strade, ma anche sui media tradizionali e nelle fitte comunità virtuali sui social.
Ma andiamo alla radice di questa parola che sta identificando un fenomeno che mai come in questo momento ho sentito così potente, quello che chiamiamo cambio di civiltà. Marea è il movimento delle acque del mare che periodicamente due volte nelle ventiquattro ore del giorno gonfiano, montano e si espandono sulle rive. Dunque marea implica un moto, sempre destinato a ritornare.
Quando si parla di femminismo all’interno della storia, si parla di ondate. La suddivisione cronologica della storiografia femminista in termini di ondate non ha trovato un riscontro unanime, ma come scrive la storica francese Christine Bard, “Un’ondata può essere ricoperta da un’altra senza scomparire”.1 Pur con le differenze e le frammentazioni all’interno del movimento che conosciamo, le giovani femministe che abbiamo visto nelle piazze in questi giorni mai come in questo momento sembrano unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando pienamente l’eredità delle “storiche” e prolungando, o forse dovremmo dire ridando vita da un nuovo punto di vista alle lotte condotte negli anni ’70.
I fatti recenti smentiscono l’idea del post-femminismo che circolava tra noi giovani donne solo qualche anno fa, nella convinzione che la libertà è stata raggiunta una volta per tutte. In queste settimane si è detto anche che il patriarcato è ancora qui, è stato chiamato a gran voce da donne arrabbiate, donne ferite, donne che ne hanno abbastanza. È un patriarcato eroso, un fantasma del patriarcato che si nasconde nelle relazioni personali e nei luoghi di lavoro, un patriarcato che, marea dopo marea, ha un volto nuovo che abbiamo appena compreso: quello dell’uomo-vittima. L’uomo che non si riconosce più. L’uomo che non sa più come prenderci. L’uomo che si sente in competizione con le donne. L’uomo che collabora fintanto che a farla da padrone è lui. Dall’ego-soggettivismo superomista alla prigione a cielo aperto della “città delle donne”. Dal furore alla disfatta. Povero uomo.
Come ci dicono le piazze recenti, tutti gli uomini sono responsabili. Io penso sia importante ribadire che tutti gli uomini sono responsabili delle azioni e dei comportamenti che condurranno da questo momento in avanti, singolarmente e collettivamente, perché qualcosa ora è davvero cambiato e bisogna guardare avanti per costruire un disegno comune. La dimensione collettiva sembra darci una prospettiva futura in questo momento, in cui la dimensione soggettiva è spesso associata a quella individuale nel senso di individualista, di solitaria, egoriferita, come la dimensione digitale dei nostri profili, come la solitudine che ognuna di noi sente quando si tratta di affrontare i problemi veri, solitudine che forse sentono anche gli uomini, frutto di un’impotenza generazionale.
Eppure credo che è proprio nella dimensione soggettiva, intima e personale che il cambiamento potrà avvenire. Certo cosa significa “personale”, che sentiamo nelle slogan femminista “il personale è politico”, nell’epoca in cui la dimensione pubblica e privata si articola attraverso degli account? Forse bisognerebbe partire proprio da qui, cosa è personale per noi? Quell’io singolare proprio mio di Patrizia Cavalli, titolo di una sua raccolta del ‘92, in cui riaffiora ora la poesia “Dentro il tuo mare viaggiava la mia nave dentro quel mare mi sono immersa e nacqui. Mi colpisce la novità della stagione e il corpo che si accorge di aver freddo.”
Personale è forse partire da sé, come abbiamo imparato a fare qui in Libreria, per scoprirsi sole e incomplete senza il sé dell’altra e dell’altro, personale è vuoto senza lo sguardo di chi ci guarda fuori da noi. Noi donne questo lo sappiamo, e il nuovo bisogno di ricreare comunità reali e virtuali che siano uno spazio di parola alternativo ci racconta proprio questo. In queste settimane anche qui a Milano sono nati nuovi spazi di condivisione anche in luoghi che non sono deputati a incontri femministi. Questi momenti di autocoscienza in alcuni casi hanno scosso molte ragazze, hanno preso coscienza della violenza subita da parte degli uomini negli ultimi anni, violenza fisica, verbale, emotiva, economica. Questo ha generato anche atteggiamenti di chiusura verso gli uomini, di inevitabile diffidenza, perché il nemico potrebbe essere tra noi, a casa, al bar o in ufficio. Al netto della positività che questa forte risposta sta generando nello scuotere le coscienze, questa chiusura e alcune forme di nascente separatismo e radicalizzazione da parte delle donne mi preoccupano. Perché l’autorità femminile continui a circolare sempre di più abbiamo bisogno di farla sentire agli uomini anche e soprattutto con nuove forme di mediazione, che partano dalla dimensione relazionale.
Le relazioni di potere contro cui combattiamo ogni giorno sono la radice di molti dei problemi che viviamo in prima persona. Sono relazioni, non corpi astratti a cui diamo il nome di “società”, come se in qualche modo fosse compito sempre di altri. Queste relazioni si basano sull’idea patriarcale di controllo, controllo dell’uomo rispetto al margine di azione di una donna, ma a volte anche di donne rispetto ad altre donne. Controllo viene dalla parola francese contrôle ovvero contro registro, il che ci riporta alla vigilanza, a un occhio burocratico, ciò che appunta lo sguardo. Dello sguardo molto ci ha detto Irigaray, e del potere maschile di guardare, del male gaze, sentiamo il peso in ogni momento. Lo sguardo maschile appunta ciò che facciamo quando ci vestiamo in un certo modo, quando ci mostriamo sui social, quando esprimiamo la nostra sessualità, mentre lavoriamo. Lo sguardo maschile ruba. Lo sguardo quantifica il nostro potere di scambio in quanto merce-corpo pensante e brillante nell’economia liberista.
È interessante in questo senso quanto ha detto nella conferenza del progetto Elles a Paris Photo lo scorso novembre la curatrice Nathalie Herschdorfer: che forse non dovremmo più parlare di female gaze in opposizione e in risposta allo sguardo maschile, ma che abbiamo bisogno di altre parole. Di parole nuove per dire di noi, e per parlare con gli uomini. Fintanto che le nostre parole non saranno diverse per raccontare cosa vogliamo e come lo vogliamo non assisteremo alla svolta che intravediamo.
Mi piacerebbe che la nostra sacrosanta rabbia, che in questi giorni ha usato anche parole bellicose, si facesse innanzitutto produttiva, produttiva di un cambiamento che è qui nelle nostre mani e che dobbiamo cercare di attualizzare mostrando agli uomini che un dialogo è possibile. Che si può imparare con noi, ora. Che il mansplaining manifesto o meno è finito. Che il nostro approccio alle emozioni può rendere le loro e le nostre relazioni migliori. Che nuove pratiche nel mondo del lavoro e del fare arte sono a beneficio di tutti. Che anche per gli uomini è arrivato il momento di partire da sé e di chiedersi con noi: quando ci sentiamo davvero libere?
Anch’io come tutte le donne ho avuto a che fare con atteggiamenti violenti da parte di uomini, nelle relazioni e nel lavoro. Si è trattata di violenza psicologica e a volte economica. Ma non voglio dire che l’ho subita, perché non è stato così: ho capito, ho reagito, ho lottato. Ho creato uno spazio mio di lavoro e di vita in cui i vecchi metodi basati sulla sopraffazione non valgono più. Ancora oggi mi devo interfacciare con uomini che cercano di sminuirmi, che fingono di non vedermi anche se guardano, che cercano di togliere valore alle mie idee perché tutto si basa sul principio che vali solo se dai, se produci, e se ti tolgono quello non vali più nulla neanche tu. E invece prima ancora di dare, ci sono. Esserci basta. Starci. Riversarsi nel mondo come marea, senza contenersi. Il nostro pensiero e il nostro sentire non sono disgiunti da noi e hanno valore nello scambio, non nella valutazione. Agli uomini dico, questa sono io, e non ci sarà nessun diritto, nessuna legge, nessuna simmetria a farmi sentire amata. Ci sarà la complicità dello sguardo congiunto, ci sarà l’ascolto della nostra differenza.
ENG
Tide
Giorgia Basch
In recent days, during the demonstrations that have taken place in the squares of Italy fighting for violence against women, one sentence has stood out above them all: 'We are a tide'. Tide were the more than 500,000 people who took part to the demonstration in Rome on November 25, and thousands more in various public squares across the country, such as here in Milan, where 30,000 people gathered. Tidal were the many voices that were raised with anger in the streets, but also in mainstream media and in dense virtual communities on social media.
But let's get to the root of this word, which is identifying a phenomenon that I've never felt as powerful as right now, which is what we call a cultural shift. Tidal is the movement of ocean waters that periodically twice in the 24 hours of the day swell, rise and expand along the shores. So the tide implies a motion, always destined to return.
When we talk about feminism in history, we talk about waves. The chronological subdivision of feminist historiography in terms of waves has not met with unanimous approval, but as French historian Christine Bard writes, "One wave can be covered by another without disappearing."[1] Despite the differences and fragmentation within the movement as we know it, the young feminists we have seen in the streets these days seem united by a common goal and force, women's freedom, fully embracing the legacy of the "historical feminists" and prolonging it, or perhaps we should say reviving, from a new point of view, the struggles waged in the 1970s.
Recent events bely the idea of post-feminism that was circulating among us young women only a few years ago, in the belief that freedom has been achieved once and for all. In recent weeks, it has also been said that the patriarchy is still here, it has been called out loud by angry women, hurt women, women who have had enough. It's an eroded patriarchy, a ghost of patriarchy hiding in personal relationships and workplaces, a patriarchy that, tide after tide, has a new face that we've just understood: that of the man-victim. The man who doesn't recognize themself anymore. The man who doesn't know how to get us anymore. The man who feels they're competing with women. The man who cooperates as long as they dominate it is they. From superomistic ego-subjectivism to the open-air prison of the "city of women" From fury to defeat. Poor man.
As the recent demostrations tell us, all men are responsible. I think it's important to reiterate that all men are responsible for the actions and behaviors that they will lead from this moment forward, individually and collectively, because something has really changed now and we need to look forward to build a common plan. The collective dimension seems to give us a future perspective at the moment, in which the subjective dimension is often associated with the individual in the sense of individualism, loneliness, ebullient, like the digital dimension of our profiles, like the loneliness each of us feels when it comes to facing real problems, a loneliness perhaps also felt by men, the fruit of generational impotence.
Yet I believe that it is precisely in the subjective, intimate and personal dimension that change can happen. Surely what does "personal" mean, as we hear in the feminist slogan "personal is political," in an age when the public and private dimension are articulated through accounts? Perhaps we should start from here, what is personal for us? “That singular I which is mine” by Patrizia Cavalli, the title of a collection of them in '92, that now resurfaces with the poem "Dentro il tuo mare viaggiava la mia nave dentro quel mare mi sono immersa e nacqui. Mi colpisce la novità della stagione e il corpo che si accorge di aver freddo".
Personal is perhaps starting from oneself, as we learned to do here at Libreria, to discover oneself alone and incomplete without the self of the other, personal is empty without the gaze of those who look at us outside of us. We women know this, and the new need to recreate real and virtual communities that are an alternative space for words tells us exactly this. In recent weeks, even here in Milan, new spaces for sharing have been created, even in places that are not delegated to feminist meetings. These moments of self-awareness in some cases have shaken many girls, they have become aware of the violence suffered by men in recent years, physical, verbal, emotional, economic. This has also generated attitudes of closeness towards men, of inevitable mistrust, because the enemy could be among us, at home, at the bar or at the office. Notwithstanding the positivity that this strong response is generating in shaking people's consciences, I am concerned about this closure and some forms of emerging separatism and radicalization by women. If we wanr women's authority to continue circulate more and more, we need to make men feel it, also and above all through new forms of mediation, starting from the relational dimension.
The power relationships that we struggle against every day are at the root of many of the problems that we experience firsthand. They are relationships, not abstract bodies that we call "society," as if somehow it were always someone else's job. These reports are based on the patriarchal idea of control, control by men over a woman's room for manoeuvre, but sometimes also by women over other women. Control comes from the French word for contrôle, or counter-register, which brings us back to vigilance, to a bureaucratic eye, to what points the eye. Irigaray told us a lot about the gaze, and about the power of men to look, about bad gaze, we feel the weight of it all the time. The male gaze pinpoints what we do when we dress a certain way, when we show up on social media, when we express our sexuality, when we work. The male gaze steals. The gaze quantifies our power of exchange as a thoughtful and brilliant commodity-body in the liberal economy.
It is interesting in this sense what curator Nathalie Herschdorfer said at the Elles conference at Paris Photo last November – that maybe we should stop talking about female gaze in opposition to and in response to the male gaze, but that we need new words. New words to talk about ourselves, and to talk to men. As long as our words are not different in telling what we want and how we want it, we will not witness the breakthrough we glimpse.
I would like our inviolable anger, which in recent days has also used bellicose words, to be first and foremost productive, productive of a change which is here in our hands and which we must try to bring to fruition by showing men that a dialogue is possible. That they can learn from us now. That overt or covert mansplaining is over. That our approach to emotions can make their relationships and ours better. That new practices in the work environment and in art making are beneficial to us all. That the time has come for men too to look within and question themselves, and ask themselves together with us: when do we really feel free?”
Like all women, I have had to deal with violent attitudes by men, in relationships and at work. It was psychological and sometimes economic violence. But I don't want to say that I suffered it, because I didn't. I understood, I reacted, I fought. I have created my own space of work and life where the old methods of oppression are no longer valid. To this day, I still have to interface with men who try to belittle me, who pretend they don't see me even if they look, who try to take away the value of my ideas because it's all based on the principle that you're only worth if you give, if you produce, and if they take away that, you're not worth anything anymore. And yet before giving, I'm there. It's enough to be there. It's enough to be present. Flowing into the world like a tide, unrestrained. Our thoughts and feelings are not separate from us and have value through exchange, not in valuation. To men I say, this is me, and there will be no right, no law, no symmetry that will make me feel loved. There will be the complicity of the joint gaze, there will be listening to our difference.
1. Christine Bard, Une histoire féministe est-elle possible? La transmission universitaire, entre libertés et contraintes, Les cahiers du CEDREF, 2005
Libreria delle donne di Milano
Issue December 2023
Marea
Giorgia Basch
Nei giorni scorsi, durante le manifestazioni che si sono tenute nelle piazze d’Italia contro la violenza sulle donne, una frase è spiccata su tutte: “Siamo marea”. Marea sono state le oltre 500.000 persone che hanno partecipato a Roma il 25 novembre, e migliaia di altre in diversi luoghi pubblici del Paese, come qui a Milano, dove si sono riunite 30.000 persone. Marea sono le tantissime voci che si sono sollevate con rabbia nelle strade, ma anche sui media tradizionali e nelle fitte comunità virtuali sui social.
Ma andiamo alla radice di questa parola che sta identificando un fenomeno che mai come in questo momento ho sentito così potente, quello che chiamiamo cambio di civiltà. Marea è il movimento delle acque del mare che periodicamente due volte nelle ventiquattro ore del giorno gonfiano, montano e si espandono sulle rive. Dunque marea implica un moto, sempre destinato a ritornare.
Quando si parla di femminismo all’interno della storia, si parla di ondate. La suddivisione cronologica della storiografia femminista in termini di ondate non ha trovato un riscontro unanime, ma come scrive la storica francese Christine Bard, “Un’ondata può essere ricoperta da un’altra senza scomparire”.1 Pur con le differenze e le frammentazioni all’interno del movimento che conosciamo, le giovani femministe che abbiamo visto nelle piazze in questi giorni mai come in questo momento sembrano unite da un obiettivo e una forza comune, la libertà femminile, abbracciando pienamente l’eredità delle “storiche” e prolungando, o forse dovremmo dire ridando vita da un nuovo punto di vista alle lotte condotte negli anni ’70.
I fatti recenti smentiscono l’idea del post-femminismo che circolava tra noi giovani donne solo qualche anno fa, nella convinzione che la libertà è stata raggiunta una volta per tutte. In queste settimane si è detto anche che il patriarcato è ancora qui, è stato chiamato a gran voce da donne arrabbiate, donne ferite, donne che ne hanno abbastanza. È un patriarcato eroso, un fantasma del patriarcato che si nasconde nelle relazioni personali e nei luoghi di lavoro, un patriarcato che, marea dopo marea, ha un volto nuovo che abbiamo appena compreso: quello dell’uomo-vittima. L’uomo che non si riconosce più. L’uomo che non sa più come prenderci. L’uomo che si sente in competizione con le donne. L’uomo che collabora fintanto che a farla da padrone è lui. Dall’ego-soggettivismo superomista alla prigione a cielo aperto della “città delle donne”. Dal furore alla disfatta. Povero uomo.
Come ci dicono le piazze recenti, tutti gli uomini sono responsabili. Io penso sia importante ribadire che tutti gli uomini sono responsabili delle azioni e dei comportamenti che condurranno da questo momento in avanti, singolarmente e collettivamente, perché qualcosa ora è davvero cambiato e bisogna guardare avanti per costruire un disegno comune. La dimensione collettiva sembra darci una prospettiva futura in questo momento, in cui la dimensione soggettiva è spesso associata a quella individuale nel senso di individualista, di solitaria, egoriferita, come la dimensione digitale dei nostri profili, come la solitudine che ognuna di noi sente quando si tratta di affrontare i problemi veri, solitudine che forse sentono anche gli uomini, frutto di un’impotenza generazionale.
Eppure credo che è proprio nella dimensione soggettiva, intima e personale che il cambiamento potrà avvenire. Certo cosa significa “personale”, che sentiamo nelle slogan femminista “il personale è politico”, nell’epoca in cui la dimensione pubblica e privata si articola attraverso degli account? Forse bisognerebbe partire proprio da qui, cosa è personale per noi? Quell’io singolare proprio mio di Patrizia Cavalli, titolo di una sua raccolta del ‘92, in cui riaffiora ora la poesia “Dentro il tuo mare viaggiava la mia nave dentro quel mare mi sono immersa e nacqui. Mi colpisce la novità della stagione e il corpo che si accorge di aver freddo.”
Personale è forse partire da sé, come abbiamo imparato a fare qui in Libreria, per scoprirsi sole e incomplete senza il sé dell’altra e dell’altro, personale è vuoto senza lo sguardo di chi ci guarda fuori da noi. Noi donne questo lo sappiamo, e il nuovo bisogno di ricreare comunità reali e virtuali che siano uno spazio di parola alternativo ci racconta proprio questo. In queste settimane anche qui a Milano sono nati nuovi spazi di condivisione anche in luoghi che non sono deputati a incontri femministi. Questi momenti di autocoscienza in alcuni casi hanno scosso molte ragazze, hanno preso coscienza della violenza subita da parte degli uomini negli ultimi anni, violenza fisica, verbale, emotiva, economica. Questo ha generato anche atteggiamenti di chiusura verso gli uomini, di inevitabile diffidenza, perché il nemico potrebbe essere tra noi, a casa, al bar o in ufficio. Al netto della positività che questa forte risposta sta generando nello scuotere le coscienze, questa chiusura e alcune forme di nascente separatismo e radicalizzazione da parte delle donne mi preoccupano. Perché l’autorità femminile continui a circolare sempre di più abbiamo bisogno di farla sentire agli uomini anche e soprattutto con nuove forme di mediazione, che partano dalla dimensione relazionale.
Le relazioni di potere contro cui combattiamo ogni giorno sono la radice di molti dei problemi che viviamo in prima persona. Sono relazioni, non corpi astratti a cui diamo il nome di “società”, come se in qualche modo fosse compito sempre di altri. Queste relazioni si basano sull’idea patriarcale di controllo, controllo dell’uomo rispetto al margine di azione di una donna, ma a volte anche di donne rispetto ad altre donne. Controllo viene dalla parola francese contrôle ovvero contro registro, il che ci riporta alla vigilanza, a un occhio burocratico, ciò che appunta lo sguardo. Dello sguardo molto ci ha detto Irigaray, e del potere maschile di guardare, del male gaze, sentiamo il peso in ogni momento. Lo sguardo maschile appunta ciò che facciamo quando ci vestiamo in un certo modo, quando ci mostriamo sui social, quando esprimiamo la nostra sessualità, mentre lavoriamo. Lo sguardo maschile ruba. Lo sguardo quantifica il nostro potere di scambio in quanto merce-corpo pensante e brillante nell’economia liberista.
È interessante in questo senso quanto ha detto nella conferenza del progetto Elles a Paris Photo lo scorso novembre la curatrice Nathalie Herschdorfer: che forse non dovremmo più parlare di female gaze in opposizione e in risposta allo sguardo maschile, ma che abbiamo bisogno di altre parole. Di parole nuove per dire di noi, e per parlare con gli uomini. Fintanto che le nostre parole non saranno diverse per raccontare cosa vogliamo e come lo vogliamo non assisteremo alla svolta che intravediamo.
Mi piacerebbe che la nostra sacrosanta rabbia, che in questi giorni ha usato anche parole bellicose, si facesse innanzitutto produttiva, produttiva di un cambiamento che è qui nelle nostre mani e che dobbiamo cercare di attualizzare mostrando agli uomini che un dialogo è possibile. Che si può imparare con noi, ora. Che il mansplaining manifesto o meno è finito. Che il nostro approccio alle emozioni può rendere le loro e le nostre relazioni migliori. Che nuove pratiche nel mondo del lavoro e del fare arte sono a beneficio di tutti. Che anche per gli uomini è arrivato il momento di partire da sé e di chiedersi con noi: quando ci sentiamo davvero libere?
Anch’io come tutte le donne ho avuto a che fare con atteggiamenti violenti da parte di uomini, nelle relazioni e nel lavoro. Si è trattata di violenza psicologica e a volte economica. Ma non voglio dire che l’ho subita, perché non è stato così: ho capito, ho reagito, ho lottato. Ho creato uno spazio mio di lavoro e di vita in cui i vecchi metodi basati sulla sopraffazione non valgono più. Ancora oggi mi devo interfacciare con uomini che cercano di sminuirmi, che fingono di non vedermi anche se guardano, che cercano di togliere valore alle mie idee perché tutto si basa sul principio che vali solo se dai, se produci, e se ti tolgono quello non vali più nulla neanche tu. E invece prima ancora di dare, ci sono. Esserci basta. Starci. Riversarsi nel mondo come marea, senza contenersi. Il nostro pensiero e il nostro sentire non sono disgiunti da noi e hanno valore nello scambio, non nella valutazione. Agli uomini dico, questa sono io, e non ci sarà nessun diritto, nessuna legge, nessuna simmetria a farmi sentire amata. Ci sarà la complicità dello sguardo congiunto, ci sarà l’ascolto della nostra differenza.
ENG
Tide
Giorgia Basch
In recent days, during the demonstrations that have taken place in the squares of Italy fighting for violence against women, one sentence has stood out above them all: 'We are a tide'. Tide were the more than 500,000 people who took part to the demonstration in Rome on November 25, and thousands more in various public squares across the country, such as here in Milan, where 30,000 people gathered. Tidal were the many voices that were raised with anger in the streets, but also in mainstream media and in dense virtual communities on social media.
But let's get to the root of this word, which is identifying a phenomenon that I've never felt as powerful as right now, which is what we call a cultural shift. Tidal is the movement of ocean waters that periodically twice in the 24 hours of the day swell, rise and expand along the shores. So the tide implies a motion, always destined to return.
When we talk about feminism in history, we talk about waves. The chronological subdivision of feminist historiography in terms of waves has not met with unanimous approval, but as French historian Christine Bard writes, "One wave can be covered by another without disappearing."[1] Despite the differences and fragmentation within the movement as we know it, the young feminists we have seen in the streets these days seem united by a common goal and force, women's freedom, fully embracing the legacy of the "historical feminists" and prolonging it, or perhaps we should say reviving, from a new point of view, the struggles waged in the 1970s.
Recent events bely the idea of post-feminism that was circulating among us young women only a few years ago, in the belief that freedom has been achieved once and for all. In recent weeks, it has also been said that the patriarchy is still here, it has been called out loud by angry women, hurt women, women who have had enough. It's an eroded patriarchy, a ghost of patriarchy hiding in personal relationships and workplaces, a patriarchy that, tide after tide, has a new face that we've just understood: that of the man-victim. The man who doesn't recognize themself anymore. The man who doesn't know how to get us anymore. The man who feels they're competing with women. The man who cooperates as long as they dominate it is they. From superomistic ego-subjectivism to the open-air prison of the "city of women" From fury to defeat. Poor man.
As the recent demostrations tell us, all men are responsible. I think it's important to reiterate that all men are responsible for the actions and behaviors that they will lead from this moment forward, individually and collectively, because something has really changed now and we need to look forward to build a common plan. The collective dimension seems to give us a future perspective at the moment, in which the subjective dimension is often associated with the individual in the sense of individualism, loneliness, ebullient, like the digital dimension of our profiles, like the loneliness each of us feels when it comes to facing real problems, a loneliness perhaps also felt by men, the fruit of generational impotence.
Yet I believe that it is precisely in the subjective, intimate and personal dimension that change can happen. Surely what does "personal" mean, as we hear in the feminist slogan "personal is political," in an age when the public and private dimension are articulated through accounts? Perhaps we should start from here, what is personal for us? “That singular I which is mine” by Patrizia Cavalli, the title of a collection of them in '92, that now resurfaces with the poem "Dentro il tuo mare viaggiava la mia nave dentro quel mare mi sono immersa e nacqui. Mi colpisce la novità della stagione e il corpo che si accorge di aver freddo".
Personal is perhaps starting from oneself, as we learned to do here at Libreria, to discover oneself alone and incomplete without the self of the other, personal is empty without the gaze of those who look at us outside of us. We women know this, and the new need to recreate real and virtual communities that are an alternative space for words tells us exactly this. In recent weeks, even here in Milan, new spaces for sharing have been created, even in places that are not delegated to feminist meetings. These moments of self-awareness in some cases have shaken many girls, they have become aware of the violence suffered by men in recent years, physical, verbal, emotional, economic. This has also generated attitudes of closeness towards men, of inevitable mistrust, because the enemy could be among us, at home, at the bar or at the office. Notwithstanding the positivity that this strong response is generating in shaking people's consciences, I am concerned about this closure and some forms of emerging separatism and radicalization by women. If we wanr women's authority to continue circulate more and more, we need to make men feel it, also and above all through new forms of mediation, starting from the relational dimension.
The power relationships that we struggle against every day are at the root of many of the problems that we experience firsthand. They are relationships, not abstract bodies that we call "society," as if somehow it were always someone else's job. These reports are based on the patriarchal idea of control, control by men over a woman's room for manoeuvre, but sometimes also by women over other women. Control comes from the French word for contrôle, or counter-register, which brings us back to vigilance, to a bureaucratic eye, to what points the eye. Irigaray told us a lot about the gaze, and about the power of men to look, about bad gaze, we feel the weight of it all the time. The male gaze pinpoints what we do when we dress a certain way, when we show up on social media, when we express our sexuality, when we work. The male gaze steals. The gaze quantifies our power of exchange as a thoughtful and brilliant commodity-body in the liberal economy.
It is interesting in this sense what curator Nathalie Herschdorfer said at the Elles conference at Paris Photo last November – that maybe we should stop talking about female gaze in opposition to and in response to the male gaze, but that we need new words. New words to talk about ourselves, and to talk to men. As long as our words are not different in telling what we want and how we want it, we will not witness the breakthrough we glimpse.
I would like our inviolable anger, which in recent days has also used bellicose words, to be first and foremost productive, productive of a change which is here in our hands and which we must try to bring to fruition by showing men that a dialogue is possible. That they can learn from us now. That overt or covert mansplaining is over. That our approach to emotions can make their relationships and ours better. That new practices in the work environment and in art making are beneficial to us all. That the time has come for men too to look within and question themselves, and ask themselves together with us: when do we really feel free?”
Like all women, I have had to deal with violent attitudes by men, in relationships and at work. It was psychological and sometimes economic violence. But I don't want to say that I suffered it, because I didn't. I understood, I reacted, I fought. I have created my own space of work and life where the old methods of oppression are no longer valid. To this day, I still have to interface with men who try to belittle me, who pretend they don't see me even if they look, who try to take away the value of my ideas because it's all based on the principle that you're only worth if you give, if you produce, and if they take away that, you're not worth anything anymore. And yet before giving, I'm there. It's enough to be there. It's enough to be present. Flowing into the world like a tide, unrestrained. Our thoughts and feelings are not separate from us and have value through exchange, not in valuation. To men I say, this is me, and there will be no right, no law, no symmetry that will make me feel loved. There will be the complicity of the joint gaze, there will be listening to our difference.
1. Christine Bard, Une histoire féministe est-elle possible? La transmission universitaire, entre libertés et contraintes, Les cahiers du CEDREF, 2005